L’autonomia differenziata delle Regioni

L’autonomia differenziata delle Regioni fu inserita nella riforma costituzionale del 2001 voluta dal centro sinistra ed è prevista nell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
“Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.

Possono dunque essere attribuite alle Regioni tutte le materie cosiddette “a legislazione concorrente“ tra Stato e Regioni, quelle per cui, normalmente, lo Stato stabilisce i principi fondamentali e la Regione ne definisce i contenuti normativi, oltre a tre materie di legislazione esclusiva statale.

Con la trasformazione si avrà piena sovranità delle Regioni per tali materie, lasciando maggiore spazio all’autogoverno dei singoli territori.

Nella Costituzione non è definita la forma per esercitare tale autonomia, né la procedura da seguire nel corso del confronto tra Stato e Regione.

L’iniziativa di autonomia parte dalla Regione interessata che, con un iter, inoltra la richiesta al Governo e firma un’intesa con lo stesso.

Con il trasferimento delle competenze, si rende necessario anche il trasferimento delle risorse.

Negli anni 2017-2018 le prime tre Regioni, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto (che rappresentano il 40% del Pil italiano), dopo i necessari iter interni (ivi compresi referendum consultivi regionali) hanno iniziato i negoziati con il Governo sia in merito alle risorse che in merito alle competenze da trasferire, con incontri di natura tecnica e politica utili alla definizione dei contenuti.

Il 28 febbraio 2018 sono state firmate delle pre-intese dal sottosegretario di Governo Bressa (all’epoca membro del gruppo Partito democratico, attualmente del gruppo SPV autonomie): le tre intese hanno orientamento similare tranne che per le materie (minori richieste da parte dell’Emilia Romagna), anche se tutte le 3 pre intese lasciano la possibilità di estendere ad ulteriori materie durante la trattativa e quindi nelle intese finali.Gli accordi saranno di durata decennale e potranno essere modificati solo di comune accordo tra lo Stato e la singola Regione.

Nelle pre intese è espressamente indicato che, per l’approvazione in Parlamento, si utilizzerà un procedimento dalla prassi consolidata, quello utilizzato nell’approvazione delle intese tra lo Stato e le confessioni religiose (previsto all’articolo 8, terzo comma della Costituzione). Questo procedimento prevede che l’intesa sottoposta alle Camere non sarà soggetta ad emendamenti, e sulla stessa il Parlamento non potrà neanche esprimere indirizzi. Il parlamento approverà a posteriori le intese tra lo Stato e le Regioni, dopo la firma, già confezionate: il passaggio parlamentare sarà un semplice atto di ratifica. Tutta la definizione di dettaglio sarà devoluta a Commissioni paritetiche Stato – Regioni (tutte) al di fuori del Parlamento.

Il contratto di Governo tra Lega e 5 stelle indica “questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte. Il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse”.

Il 21 dicembre 2018 il Presidente del Consiglio Conte ha annunciato che a metà febbraio 2019 avrebbe incontrato i presidenti delle tre Regioni interessate, avendo fissato un percorso cronologico per arrivare alla firma delle intese definitive.

***

Le pre intese firmate dalle 3 Regioni  al termine della precedente legislatura, data la ristrettezza dei tempi, hanno definito i primi 4 settori su cui intervenire, lasciando la possibilità di estensione ad altre materie in un momento successivo:

ambiente ed ecosistema,

istruzione,

salute,

lavoro,

rapporti internazionali e con l’Unione europea.

Il negoziato è proseguito a condizione della “individuazione delle forme di finanziamento” fissando che le risorse finanziarie siano determinate da una commissione Stato Regioni tenendo conto di:

-compartecipazione o riserva di gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale,

-spesa sostenuta dallo Stato nella Regione,

-“fabbisogni standard che dovranno essere determinati entro un anno dall’approvazione dell’intesa e che, progressivamente, entro cinque anni, dovranno diventare, in un’ottica di superamento della spesa storica, il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi”.

Nella determinazione delle risorse nel primo anno, dunque, si continuerà con il costo storico – cioè quanto lo Stato spende già oggi per la singola competenza che sta trasferendo alla Regione-, ma entro il quinto anno dalla firma dell’intesa definitiva, dovranno essere definiti i “fabbisogni standard” dei servizi offerti al cittadino.

Attualmente il concetto di fabbisogno standard è già utilizzato:

dal 2014 per la ripartizione dei Fondi di finanziamento degli atenei universitari,

dal 2013 per la ripartizione del Fondo sanitario nazionale,

dal 2017 per la ripartizione del Fondo di solidarietà ai Comuni..

Il fabbisogno standard tiene conto dei costi, del livello e della qualità del servizio offerto: si determina con parametri complessi e sulla base di grandi quantità di dati inerenti le caratteristiche del territorio e gli aspetti socio demografici. Si tratta di un’elaborazione tecnica che richiede azioni politiche di mediazione tra tutti i territori dello Stato, perché usare una combinazione di indicatori piuttosto che un’ altra può comportare risultati diversi che non sempre potrebbero essere considerati indipendenti ed equilibrati, soprattutto se non definiti in modo trasparente per l’opinione pubblica e se non valutati da tutti i portatori di interesse (tantomeno dal Parlamento).

Il riferimento al gettito fiscale per l’ottenimento delle risorse rappresenta un’ anomalia, non solo perché si tratta di un elemento mai preso in considerazione nell’utilizzo dei fabbisogni standard (nei casi già in essere) ma quanto perché rappresenta un’allerta di rischio poiché le Regioni con maggiore capacità fiscale potrebbero trattenere, sottraendole ai territori meno dotati,  risorse che dovrebbero essere destinate ai meccanismi di riequilibrio territoriale, che devono essere  garantiti dallo Stato centrale. Tale situazione comprometterebbe la stessa unità giuridica ed economica del Paese

Nella definizione delle funzioni che passano dallo Stato alle Regioni, in alcuni dei passaggi delle intese vi è il riferimento ai “livelli essenziali delle prestazioni”: un concetto previsto dalla Costituzione riscritta nel 2001, a tutt’oggi mai definito ufficialmente,  e che rappresenta il livello minimo delle prestazioni di diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, a prescindere dalla Regione in cui si risiede. In assenza di norme che definiscano tali livelli delle prestazioni (oltre alla valutazione di quale sarà il loro impatto nelle Regioni una volta entrati a regime) si rischia di avere diritti finanziati in funzione del territorio e non dell’oggettività, con gravi rischi per la compattezza e l’unità nazionale. Per tale compito sarà impegnato il comitato paritetico Stato -Regioni (tutte) che dovrà definire criteri unitari per l’erogazione dei servizi ai cittadini.

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