Per conto del Fondo Monetario Internazionale sono stati pubblicati 5 studi sulle riforme necessarie al nostro Paese per rilanciare l’economia.
Fonte di ispirazione delle scelte di politica economica dei nostri diversi Governi, è bene tener presenti le risultanze sintetiche. Qui il primo studio.
COMPETITIVITA’ E RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE SALARIALE
L’assunto di fondo è che in un’unione monetaria (che impedisce la svalutazione per singolo Paese) il rafforzamento della competitività di un territorio deve tradursi in aumento dei prezzi relativi delle esportazioni, e, nella composizione del prezzo, l’elemento determinante è considerato il costo del lavoro. L’Italia dopo la crisi non ha aumentato il valore delle esportazioni e non ha aumentato il Pil rispetto agli altri Paesi.
I RISULTATI DELLE ANALISI
*La crescita nominale dei salari ha superato la produttività: in Germania è accaduto esattamente il contrario, la crescita della produttività del lavoro ha superato la crescita dei salari. Il differenziale di questo rapporto sfavorevole tra l’Italia e la Germania è di circa il 30% (nella figura, le linee tratteggiate).
*Ci sono stati aumenti salariali che non si sono potuti convertire in prezzi più elevati alle esportazioni, nonostante la qualità di produzione che avrebbe potuto proteggerci e ciò perché prevalentemente siamo presenti in mercati a bassa tecnologia: tessile, abbigliamento, calzature, motocicli e biciclette. Il Paese si è così scarsamente integrato nelle catene del valore globali, che godono dei benefici derivanti dalla liberalizzazione degli scambi.
*Non abbiamo avuto, differentemente da altri, la possibilità di adeguare elasticamente le spese del personale riducendole durante i vari periodi di crisi:
gli aggiustamenti necessari per garantire la competitività si sono così scaricati sui profitti, che si sono ridotti, e hanno contratto drasticamente gli investimenti e l’occupazione.
*Vi è un’adozione lenta di nuove tecnologie: la scala generale dell’attività innovativa (misurata dal numero di ricercatori e brevetti, spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo in percentuale del PiL) ci pone molto indietro anche se la produttività, per quella poca ricerca fatta, è elevatissima.
*La mancanza di meritocrazia e l’esistenza di imprese ad elevata fidelizzazione dei dipendenti ha permesso di affrontare le distorsioni finanziarie e burocratiche del mercato ma non ha migliorato il legame lavoro/produttività né ha aiutato a tradurre i pochi investimenti tecnologici in crescita della produttività.
*La tendenziale piccola dimensione delle imprese rappresenta un impedimento alle economie di scala e alla diffusione della tecnologia.
Con queste caratteristiche e nonostante un euro tutto sommato debole (che ha aiutato gli altri Paesi dell’area), l’Italia ha così costantemente perso quote di mercato, dando spazio ai prodotti cinesi, ai quali sempre più si rapportano le nostre esportazioni.
La struttura del prodotto in Italia è diventata nel corso degli ultimi anni sempre meno complessa, e la Cina è il diventata il nostro primo confronto metrico tendenziale.
I LIMITI ESTERNI ATTUALI
La necessità di sistemare in via definitiva i bilanci bancari in modo da sostenere la ripresa economica,
l’eliminazione degli ostacoli alla concorrenza,
la necessità di riformare la Pubblica Amministrazione,
il bisogno costante di migliorare le infrastrutture del Paese,
restano i principali elementi di riferimento e guida per contribuire alla ripresa, oltre agli interventi sui salari.
GLI INTERVENTI POSSIBILI SULLA CONTRATTAZIONE SALARIALE
La contrattazione salariale italiana è centralizzata (differentemente da quanto si verifica negli altri Paesi ove è presente una contrattazione intermedia tra il centro e l’impresa) e questo comporta una certa rigidità che posiziona l’Italia agli ultimi posti nella flessibilità salariale e nella cooperazione tra le parti sociali.
L’Italia è caratterizzata anche da una mancata corrispondenza tra l’offerta e la domanda di competenze.
Sono presenti inoltre grandi disparità regionali che, combinate con la contrattazione centralizzata, ostacolano la crescita del salario reale.
In Germania i salari si sono agganciati alla produttività in virtù di un sistema di responsabilità condivise:i rappresentanti dei dipendenti partecipano infatti attivamente alla gestione delle società.
Considerata la nostra struttura istituzionale e la frammentazione delle imprese (con una prevalenza delle piccole dimensioni) lo studio suggerisce all’Italia di dirigersi verso una contrattazione d’impresa piuttosto che verso una contrattazione salariale locale (regionale) o settoriale, partendo da una cosiddetta “lista pulita” e consentendo contratti d’impresa che prevalgano sui livelli di contrattazione più elevata.
Le imprese potrebbero essere autorizzate a ricorrere ad un livello più alto di contrattazione (settoriale o nazionale) solo quando non si impegnano (o accettano di rinunciare) alla contrattazione aziendale.
Si rende così necessaria l’istituzione di un salario minimo garantito, impostato in modo da non disincentivare la partecipazione al lavoro ma che sia differenziato in modo da tener conto delle differenze di produttività e degli standard di vita di ogni Regione.
Una riforma del genere potrebbe non avere le consuete conseguenze recessive immediate contenute nelle abituali riforme: nel modello ipotizzato il consumo reale e gli investimenti decrescono poco e solo inizialmente con la riduzione dei salari. Negli anni successivi vengono compensati e favoriti dai minori prezzi relativi che presenteranno i prodotti italiani rispetto ai Paesi competitors, da cui l’aumento delle esportazioni che produrrebbe un aumento di Pil del Paese.
In teoria, volendo solo per un attimo non considerare i costi sociali di questa riforma, (quasi) tutto bene.
1)Quello che può risultare preoccupante è se il meccanismo, per qualsivoglia motivo esterno, si dovesse inceppare (nuovo Governo che non ha intenzione di continuare su questa strada, per esempio).
Se tutto l’iter si dovesse fermare ci ritroveremmo
con un avanzo primario ridotto,
e un debito esploso.
2) Il modello sottovaluta anche la possibilità che altri elementi intervengano impedendo una consistente riduzione dei prezzi alle esportazioni (petrolio ? tassi di interesse su debito pubblico e privato? Impossibilità di porre in essere le riforme necessarie? Una combinazione di tutti questi fattori?)
3) Il modello non considera che la riduzione del costo del lavoro possa non tradursi in riduzione automatica dei prezzi proprio per una resistenza del mercato che potrebbe voler recuperare la redditività perduta durante la crisi.
RISCHI ALTISSIMI DA VALUTARE E CONTROBILANCIARE CON ACCURATEZZA.
Rispondi