La Germania presenta un avanzo commerciale annuale sempre più forte, addirittura maggiore di quello della Cina. Quest’anno il surplus tedesco ha raggiunto i 320 miliardi di euro, il 9% del suo Pil.
A rigor di logica questa situazione dovrebbe spingere la sua economia a reinvestire nel territorio europeo almeno una parte dell’esubero, sotto forma di investimenti (infrastrutture, servizi) o di domanda per consumi, se non altro perché una bilancia dei pagamenti così deviata verso l’esterno, avrebbe fatto apprezzare la sua valuta, se non fosse stata all’interno di un sistema valutario che unisce Paesi con una differente forza commerciale (il Fmi stima una ipotetica valuta nazionale sovraquotata di almeno il 15%).
O quantomeno dovrebbe essere sottoposta alle rigide regole per non aver rispettato le previsioni del Patto di stabilità e crescita che prevede sanzioni non soltanto per chi fa deficit oltre il 3% del Pil, ma anche per chi gestisce annualmente un avanzo superiore al 6% del proprio Pil. Né l’una, né l’altra.
Il motivo che giustifica questo atteggiamento di trattenuta della liquidità, è la risultante sommatoria di una serie di situazioni e può essere considerato causa egoistica del principio di frantumazione dell’eurozona.
Landesbanken. 6 istituti bancari pubblici, gestiti dalla politica e che rappresentano complessivamente la quarta banca del Paese, con 1000 miliardi di attivi gestiti e quasi 700 miliardi di attività deteriorate nel proprio portafogli. Nel 2012 la potente Cancelliera è riuscita a tenerle fuori dalla lente d’osservazione della vigilanza Bce, lasciandone la supervisione alla più debole Eba (European banking authority), in quanto già da allora abbondantemente immerse nella problematica nata dalla crisi Lehman per avere investito in prodotti strutturati con sottostanti mutui subprime che avevano dato origine alla crisi statunitense. Una situazione finanziaria sulla quale nessuno osa accendere i fari.
Volkswagen: pur partecipando in parte limitata al capitale, la Germania manifatturiera si ritrova coinvolta in uno scandalo dalle dimensioni enormi che ne hanno intaccato la proverbiale etica morale e professionale, oltre che i bilanci, a rischio di oneri e risarcimenti multimiliardari sui quali il Governo centrale non potrà non agire in maniera protezionistica. Chissà se al termine dei suoi mandati, la potente dominus tedesca, sarà mai riuscita a confezionare il pacchetto di chiusura della questione.
Deutsche bank. Simbolo dell’economia finanziaria tedesca, negli ultimi anni ha riportato perdite multimiliardarie per via di vari contenzioni aperti: dalle manipolazioni dei tassi di interesse e dei cambi, a sanzioni per violazioni di norme su transazioni con Paesi come Siria e Iran, a conseguenze di bilancio per la maxisvalutazione della partecipazione nel colosso bancario cinese Hua Xia coinvolto nelle massicce perdite di borsa dell’agosto 2015. Ultima in ordine cronologico, la sanzione prospettata nel 2016 dall’amministrazione finanziaria statunitense, per la vendita di prodotti opachi fondati sull’immobiliare, criticità esplosa con la crisi Lehman, per cui la giustizia ha chiesto un mega risarcimento di 14 miliardi di dollari (quasi un quarto dell’attuale valore di Borsa dell’istituto che nel 2016 ha perso la metà della sua capitalizzazione arrivando a toccare il minimo storico di 10,55 euro per azione).
Nessun dato certo si ha invece per il livello di titoli tossici e illiquidi che la banca ha in portafoglio e che potrebbero in realtà già oggi erodere completamente il valore del capitale della banca.
La conseguenza di questi insani legami finanziari, non può che bloccare automaticamente qualsiasi iniziativa destinata alla cooperazione per la causa europea.
Una delle quattro concause, o tutte e 4 contemporaneamente, potrebbero comportare importanti iniezioni di liquidità che devono restare pronte a disposizione. Ragione per cui i responsabili finanziari del governo tedesco ribadiscono che è un’ingenuità pensare che la Germania reinvesta il suo surplus.
Incide pesantemente su questa situazione la scelta fatta all’interno del board della Bce di attuare la politica monetaria espansiva straordinaria del febbraio 2015 a sostegno della riduzione dei tassi per lo sviluppo degli investimenti privati e la riduzione degli oneri dei debiti pubblici europei da destinare a manovre fiscali espansive. La discesa dei tassi di interesse comprime ulteriormente la redditività degli istituti bancari coinvolti e non garantisce rendimenti ai risparmiatori, con ciò creando insoddisfazione nell’elettorato, che mal digerisce la situazione complessiva.
Ininfluente l’aumento dei salari, cresciuti dalla riforma Hartz del 2005 di uno scarno 7% (fortunatamente per la Merkel in una situazione di deflazione), o l’aumento dei lavoratori a tempo indeterminato dal 40 al 46% negli ultimi 10 anni.
Peraltro, non essendo riuscita a sviluppare un mercato interno a causa proprio delle riforme Hartz che hanno legato i salari alla produttività, limitando le risorse finanziarie a disposizione delle famiglie, la conseguenza finale è che la Germania dipenderà fortemente dal suo export e necessariamente con il passare del tempo allineerà i suoi interessi (se non lo ha già informalmente fatto) a quelli dei suoi clienti: Stati Uniti, Cina, Russia.
Questo vortice oppressivo diventerà sempre più grande e sempre più impetuoso quanto più la Merkel continuerà a perdere elezioni regionali e si avvicinerà la data delle politiche del 2017.
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