In piena pandemia il mercato del petrolio ha mostrato una realtà inimmaginabile fino a qualche anno fa: a causa dell’eccesso di offerta, dovuta alla riduzione dei consumi di trasporti e settori ad alto consumo energetico, i produttori si sono dimostrati disposti a pagare pur di collocare i barili in offerta, anche in considerazione della saturazione dei depositi di stoccaggio, ormai ai limiti.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso per il mercato WTI (riferimento per i valori statunitensi) è stata la posizione di diversi fondi di investimento che avevano negoziato strumenti finanziari (si erano impegnati cioè a comprare quantitativi di petrolio) che si chiudevano proprio nei giorni scorsi: gli investitori hanno abbandonato i contratti aperti – letteralmente regalandoli a prezzo negativo– e spostato le posizioni su contratti a diversa scadenza.
Il mercato ha regolato il prezzo sui quantitativi fisici disponibili in eccedenza in questa fase di totale crollo dei consumi. Di qui il drammatico calo di prezzo.
Questo poco inaspettato fenomeno, vista l’epidemia, è accaduto nonostante i Governi abbiano in tempi recenti cercato di stabilizzare i prezzi del petrolio controllando le quantità offerte e disponibili sul mercato: l’Opec e i Paesi produttori di petrolio avevano infatti recentemente siglato un accordo storico per tagliare l’offerta petrolifera del 10% a partire dal mese di maggio, e ciò sebbene l’estrazione petrolifera sia una procedura costosa e in alcuni casi sofisticata che non può essere interrotta se non a costi altissimi (e già si annunciano situazioni prefallimentari per alcune estrazioni statunitensi per le quali comunque Trump ha garantito il massimo sostegno).
Esiste quindi il rischio, che potremmo dover tener presente durante tutta la pandemia, che i prezzi petroliferi non solo diventino altamente volatili, ma scendano al di sotto dei più ragionevoli livelli, ancora altre volte.
Anche il Brent, riferimento petrolifero per l’Europa, potrebbe incorrere in scivoloni e con questo si complicherebbero i trend dell’inflazione nel nostro continente.
Se è vero che in parte il nostro Paese potrebbe beneficiare dai risparmi sui costi derivanti dalle importazioni petrolifere, potrebbe però rallentare in misura determinante la spinta inflazionistica, tema sul quale la Banca centrale sta lavorando da anni con operazioni ordinarie e straordinarie per riportarla al tasso ritenuto idoneo del 2%.
Vi è dunque un ulteriore grave rischio: per quanto l’inflazione “core” vada considerata depurata dell’incidenza dei prezzi del petrolio, un livello dei prezzi già molto debole potrebbe far scivolare a lungo andare le nostre economie nel fenomeno della deflazione. I consumatori si aspettano un calo dei prezzi futuri e non acquistano, in attesa della riduzione. Ciò contrarrebbe la domanda di beni di investimento da parte delle imprese con effetti a catena sullo stato già precario delle nostre economie.
Massimo monitoraggio e allerta da parte della Banca centrale, che si è già impegnata ad inondare di liquidità il momento di crisi, contemperando tre diverse esigenze:
-la necessità di sostenere la crescita in costante deterioramento in tutta l’Unione Europea a causa del blocco dei consumi che potrebbe protrarsi per ancora diverse settimane,
-l’esigenza di tenere sotto costante monitoraggio il livello dei prezzi, penalizzato dal lato della domanda ma anche dell’offerta con un sistema che si è completamente arrestato per quasi due mesi,
-la necessità di gestire il possibile andamento critico nei tassi di interesse del debito pubblico, soprattutto per i Paesi maggiormente esposti.
La Banca centrale controllerà la situazione, ma starà ai cittadini europei, e in particolare a quelli italiani, la capacità di evitare una seconda ondata di contagi e quindi l’emanazione di nuove misure di contenimento produttivo, che piegherebbe per sempre, nonostante le risorse messe a disposizione del Governo ed alla massima allerta e disponibilità di fondi da parte della Banca Centrale, una possibilità di ripresa nel breve termine della nostra economia.
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