3 aprile 2017
L’Italia imprenditoriale fonda il suo sviluppo sul credito bancario, essendo gli istituti di credito il primo fornitore di capitale dopo quello dei soci, ma le banche italiane oggi attraversano un momento storico: sul totale dei crediti concessi, ben il 18% è costituito da crediti problematici (mentre la media europea è del 5,4%) per un ammontare complessivo di circa 200 miliardi di euro. L’esistenza di queste sofferenze bancarie impedisce la concessione di nuovo credito ad imprese e famiglie per far ripartire l’economia.
Sono varie le configurazioni di questi crediti: definiti scaduti, ristrutturati, incagliati, in sofferenza a seconda del grado di evoluzione della pratica da parte della banca, sul totale di 200 miliardi l’80% appartiene ai primi 10 gruppi bancari. I 200 miliardi di credito italiano sono la buona fetta dei 900 miliardi di crediti problematici europei. Si è arrivati a queste cifre perché il mercato e i governi si sono succeduti dichiarando sempre che le banche erano solide mentre la verità in alcuni casi era un’altra.
Per eliminare queste “sofferenze” dai bilanci che impediscono la fornitura di nuovo credito al sistema, la Bce ha chiesto che vengano ceduti, inglobando nel calcolo anche posizioni ad alto rischio ma non ancora critiche. Questo ha comportato l’emersione di un monte totale di crediti critici notevole. L’operazione si rende necessaria perché per una banca, anche se dispone di liquidità, non è possibile erogare crediti oltre determinati parametri che legano il capitale ai crediti già in essere sino a quel momento.
Ogni anno peraltro gli istituti bancari devono dare una valutazione dei crediti problematici ed accantonare dei fondi per la differenza che sanno di non riuscire a recuperare dai clienti: ciò comporta delle perdite in bilancio che i soci della banca devono affrontare, immettendo nuovi fondi per mantenere i parametri chiesti dalle autorità di vigilanza. Il nuovo capitale immesso dai soci spinge gli stessi a chiedere cautele al management nella concessione di credito, e il credito non riparte.
A chi cedere allora questi crediti ? Esistono degli operatori specializzati (fondamentalmente speculatori) che guadagnano dalla differenza tra il costo che pagano alla singola banca per acquistare questi pacchetti, e quanto riusciranno a realizzare alla fine del procedimento di recupero (aste, fallimenti, ecc): hanno un notevole potere contrattuale perché riescono a fornire liquidità immediata e liberare in breve tempo i bilanci degli istituti.
Le società specializzate sollevano problemi nell’ acquisto di questi pacchetti di credito. In primo luogo per la valutazione dei pacchetti stessi: non è molto facile dare una valutazione omogenea ad un gruppo di crediti incagliati dove confluisce di tutto, dall’autovettura alla casa, all’opificio di produzione industriale. Dall’altra parte bisogna fare in modo di evitare assolutamente che con la procedura di recupero gli speculatori distruggano completamente le speranze di ripartenza di imprenditori e famiglie, e soprattutto, visto che sono in questi elenchi anche crediti parzialmente buoni ma a rischio, bisogna evitare che il fragile tessuto imprenditoriale venga ulteriormente penalizzato. I fondi specializzati tardano dunque a sviluppare gli acquisti in Italia perché sanno che le procedure di recupero sono lentissime, costose e, pur volendo acquisire immobili e beni a fini speculativi, sanno di entrare nell’economia di un Paese ingessato dalla crisi, da una burocrazia lentissima, da un mercato del lavoro fermo e dunque una situazione generale che dà scarse possibilità che questi beni possano essere rivenduti nel breve.
Da molte parti si propone di eliminare l’intervento di questi fondi speculativi e provvedere a sanare le posizioni critiche in un rapporto diretto tra banca e cliente, con una specie di condono solo sui crediti di vecchia data (non sui nuovi altrimenti il sistema ne approfitterebbe): se con le società specializzate la banca riesce a recuperare dalla vendita di questi pacchetti solo il 20% del credito originario, lo stesso 20% potrebbe invece essere richiesto alle famiglie o alle imprese direttamente, permettendo loro di sanare così la propria posizione. In tal modo le banche eviterebbero di far guadagnare i fondi speculativi (che spesso sono esteri e dunque dirottano fuori del territorio italiano i loro guadagni) e ripristinerebbero in un modo più delicato il rapporto con il cliente in difficoltà finanziaria. Questo processo però richiede più tempo. Solo dopo aver ultimato questa “pulizia” interna, la banca potrebbe tornare a concedere nuovamente credito e svolgere nuovamente il suo ruolo istituzionale. Studi della stessa Banca d’Italia hanno verificato come le banche potrebbero recuperare somme maggiori se gestissero direttamente le sofferenze anziché venderle agli operatori specializzati (questa procedura è già partita per Banca Intesa che la sta attuando direttamente con i suoi clienti).
In alternativa alla cessione agli operatori privati delle sofferenze o alla gestione interna dei crediti problematici, l’autorità bancaria europea ha proposto la creazione di una “bad bank” europea, istituto nel quale le singole banche potrebbero “parcheggiare” le sofferenze in attesa che i clienti sistemino i propri conti pregressi. La creazione di una bad bank europea aiuterebbe il mercato del credito ad evitare che l’economia possa ripiegarsi su sé stessa: se gli immobili dati a garanzia restano sul mercato di aste e fallimenti, il loro valore si abbassa, trascinando con sé anche il valore degli immobili che non sono interessati dalle procedure di recupero bancario. Si crea una diminuzione di ricchezza per famiglie ed operatori non interessati dalla crisi e si riduce anche il valore dei beni che dovranno in futuro essere dati in garanzia. A queste condizioni sarà impossibile concedere ulteriore credito. Una bad bank aiuterebbe a contenere questo fenomeno, preoccupandosi di mantenere elevato il valore di realizzo di questi immobili, con una partecipazione di tutti i Paesi europei. I governi hanno chiesto ovviamente di definire accuratamente i parametri di partecipazione dei singoli Stati nei confronti delle perdite degli istituti bancari di altri Paesi facendo in modo che la partecipazione e la responsabilità finanziaria restino legate alla percentuale di crediti deteriorati presenti nel singolo Paese.
Banca Carige ha creato una sua propria bad bank interna: una società veicolo in cui sono diventati soci gli stessi soci della banca, che ha pulito il bilancio della banca madre ricevendo i crediti problematici. La bad bank e i suoi soci sanno che in un tempo più lungo potranno recuperare il capitale che hanno originariamente investito e che è stato utilizzato per concedere questi crediti che poi si sono incagliati. Banca Carige ha così però potuto ricominciare ad erogare credito a nuovi clienti.
Al momento in Italia è operativo il sistema GACS: una banca può cedere i suoi crediti alle società specializzate e su quelli più garantiti chiedere la garanzia dello Stato (la prima operazione in questi termini è stata quella della Popolare di Bari che per cedere 480 milioni di sofferenze ha chiesto 50 milioni di garanzia allo Stato). Un altro modo per velocizzare la pulizia dei bilanci.
Un misto di queste operazioni (bad bank di proprietà, gestione interna delle sofferenze, bad bank europea con controlli dei Governi, cessione delle sofferenze con garanzia statale), rispetto alle quali nessun organismo europeo dovrebbe opporsi, potrebbe essere la soluzione per arrivare ad uno snellimento ed una ripartenza del sistema creditizio, su cui si fonda, e continuerà a fondarsi, la vita delle imprese di questo Paese e le richieste per i consumi dei cittadini.
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