26 aprile 2017
Ha visto il fondo il pozzo Alitalia, dopo decenni di perdite costate agli italiani oltre 7 miliardi di euro.
I lavoratori, con un’affluenza al voto di quasi il 90%, hanno bocciato, con il 67% delle preferenze, il verbale firmato il 14 aprile tra l’azienda e le rappresentanze sindacali per il piano di rilancio dell’azienda nel periodo 2017 – 2021.
L’accordo prevedeva: 980 esuberi ( dagli iniziali 2.037 poi ridotti a 1.100),
taglio degli stipendi dell’8% (dall’iniziale 15%),
scatti di anzianità triennali anziché annuali,
tetto massimo agli aumenti di retribuzione per le promozioni,
meno riposi.
I 163 milioni di euro di risparmi annuali del costo del lavoro programmati inizialmente nel piano (100 milioni dagli stipendi e 63 milioni dagli esuberi) si erano ridotti a 146 milioni, da conseguire per di più entro il 2019 e non subito.
Gli esuberi avrebbero inoltre avuto garantiti 2 anni di cassa integrazione straordinaria e l’intervento del Fondo del trasporto aereo che avrebbe coperto l’80% della retribuzione. Alla fine del biennio sarebbero stati riassorbiti dall’azienda o avrebbero avuto 2 anni di Naspi (ex indennità di disoccupazione).
I soci avevano accettato di continuare ad applicare il contratto collettivo nazionale scaduto il 31 dicembre senza sostituirlo con un regolamento aziendale, fino al 31 maggio, per permettere l’approvazione definitiva dell’accordo.
Alitalia è strutturata in modo da avere modalità di funzionamento di per sé fallimentari: perde 2 milioni di euro al giorno, non è competitiva sulle linee (perché il mercato interno è in crisi ed è povero, tanto che si avvale quasi esclusivamente di collegamenti low cost) e non si è organizzata per lavorare bene sulle linee a lungo raggio. Mentre nel 2016 molte compagnie hanno avuto risultati positivi, grazie al basso costo del carburante e una moderata ripresa del Pil mondiale, Alitalia è riuscita a perdere 600 milioni.
La società ha chiuso in perdita per 15 anni consecutivi e da almeno 12 anni si parla di crisi, salvataggi e piani di recupero. Dopo la gestione pubblica e l’arrivo del gruppo guidato da Colaninno, che nel 2008 scorporò la parte peggiore della gestione ripulendo la società dai debiti (la “vecchia” Alitalia è ancora in piedi e ancora in attesa di chiudere i suoi debiti ed incassare i suoi crediti), l’arrivo degli emirati di Ethiad (che hanno sborsato oltre 1 miliardo per il 49% della nuova società rifondata nel 2015 tra capitale e finanziamenti) ha solo messo momentaneamente la polvere sotto il tappeto.
Tutti i soci (compresi Unicredit 32,6%, Intesa San Paolo 32%, Popolare di Sondrio 12,4%, Atlantia 7,6%, Monte Paschi Siena 3,1%) avevano chiesto che, prima di fare un nuovo finanziamento di quasi 1 miliardo e 800milioni, lo stesso fosse condizionato all’approvazione dell’accordo con i sindacati. L’importo totale delle nuove risorse era così ripartito: 400milioni dovevano essere restituiti da impegni precedenti con banche, 180milioni sarebbero andati a garanzia di nuovi finanziamenti dagli Istituti di credito, 210milioni sarebbero stati messi a disposizione da Ethiad che avrebbe lasciato un finanziamento trasformandolo in quote capitale, 500milioni rappresentavano nuova liquidità di cassa, 500milioni erano accantonamenti per nuovi probabili rischi.
Alitalia fa rotta così verso il commissariamento.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri con un decreto nominerà uno o tre commissari e questa gestione straordinaria permetterà di gestire momentaneamente la continuità aziendale. La stessa procedura venne applicata già 9 anni fa sempre su Alitalia, e venne altresì utilizzata per gestire il crac Parmalat (con la differenza che Parmalat aveva una enorme liquidità di cassa mentre per Alitalia i fondi permetteranno di arrivare al massimo a fine aprile).
Il Commissario dovrà redigere un piano industriale entro 180 giorni dalla nomina: da questo piano industriale potrà scaturire alternativamente la vendita della società (anche per parti e settori separati) o il fallimento.
Verranno momentaneamente bloccati tutti i pagamenti non strettamente necessari alla prosecuzione dell’attività dell’azienda. Nel frattempo bisognerà approvvigionare le risorse finanziarie per proseguire l’attività: o il Governo riuscirà a realizzare un prestito–ponte che non sia considerato come aiuto di Stato dalla Comunità europea, o riuscirà ad ottenere liquidità privata a fronte della quale dovrà dare garanzie di restituzione in caso di fallimento. Vi sono problemi anche nell’utilizzo dei 300milioni recentemente accantonati nella manovra di primavera, perché si tratta di fondi che sarebbero andati a garanzia dei soci che avrebbero fornito liquidità in caso di normale prosecuzione dell’attività e non in un caso come questo di amministrazione straordinaria.
Per arrivare alla dismissione delle attività, ristrutturare i costi o arrivare alla procedura fallimentare, il Paese dovrà sborsare all’incirca 1 miliardo, comprendendo anche gli oneri che saranno necessari per coprire gli ammortizzatori sociali.
Dunque la scelta referendaria dei lavoratori ha bruciato i 7 miliardi messi dagli italiani, i 2 miliardi messi dai soci e dalle banche negli ultimi due anni, lasciato a rischio i posti di lavoro di oltre 12mila persone. Anche in caso di cessione, il mercato non potrà che assorbire solo la metà della forza lavoro, per far restare in equilibrio economico i vari settori (terra e volo) che già oggi non sono redditizi considerati unitariamente ed a maggior ragione non lo saranno se dovessero venire separati.
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